Al Refina Elena si "sogna" insieme
Fonte: il sole24ore del 1 ottobre 2013

Sognare, ma in gruppo. Collegare insieme immagini e fantasie. Riconoscere i sogni comuni e riprodurre le stesse atmosfere: sognare una seconda volta, insieme. Per affrontare meglio la sfida del cancro e della vita in ospedale. E per tenere lantana l0 spettro della depressione, sempre in agguato.
Si chiama "Ti racconto un sogno" il progetto pilota di umanizzazione delle cure messo a punto dall'equipe dell' Area di supporto alla persona degli Istituti Regina Elena e San Gallicano di Roma e partito il 30 settembre. Aperta a pazienti, familiari e operatori sanitari, l'iniziativa prevede un ciclo di "gruppi esperienziali" basati sull'applicazione della tecnica del social dreaming: un metodo di lavoro di gruppo che valorizza il contributo che i sogni possono offrire non soltanto per la comprensione del mondo interiore dei sognatori, ma anche della realtà sociale in cui vivono e si muovono.
Si chiama "Ti racconto un sogno" il progetto pilota di umanizzazione delle cure messo a punto dall'equipe dell' Area di supporto alla persona degli Istituti Regina Elena e San Gallicano di Roma e partito il 30 settembre. Aperta a pazienti, familiari e operatori sanitari, l'iniziativa prevede un ciclo di "gruppi esperienziali" basati sull'applicazione della tecnica del social dreaming: un metodo di lavoro di gruppo che valorizza il contributo che i sogni possono offrire non soltanto per la comprensione del mondo interiore dei sognatori, ma anche della realtà sociale in cui vivono e si muovono.

«Recuperando I'approccio delle culture tribali e delle civiltà antiche in cui i sogni venivano raccontati e discussi come chiavi per leggerne i significati simbolici -spiega Tonino Cantelmi, responsabile dell' Area di supporto alla persona - i sogni possono essere considerati come espressioni di desideri e di fantasie di un certo individuo ma anche come speciali rappresentazioni di punti di vista e idee sulla comunità in cui vive e delle organizzazioni a cui appartiene. La nostra esperienza mostra che l'ospedale può diventare un vero e proprio crocevia di interazioni caricate di valenze e attese non sempre reali».
Suggestiva l'ipotesi di fondo: la rielaborazione dei vissuti legati al tumore, stimolata dalla condivisione collettiva dell'immaginario onirico, può rappresentare uno strumento per riqualificare la comunicazione e la relazione tra malati, familiari, equipe sanitaria e volontari. E quindi per umanizzarla
In gioco non c'e alcuna interpretazione dei sogni, nessun riferimento all'infanzia delle persone che li raccontano, nessun diretto fine terapeutico: ci sono libere associazioni, rimandi, echi, scoperte di assonanze. Gli incontri (settimanali, ciascuno della durata di un'ora e mezza) sono “matrici”, fonti di sogni offerti al gruppo. Con
un facilitatore (psichiatra o psicoterapeuta) che è ospite e insieme ospita e circa quindici partecipanti che sono seduti in cerchio, ma in genere di spalle, perche l'assenza di contano visivo ribadisce il concerto chiave del progetto: “la moneta di scambio è il sogno, non la relazione tra i sognatori”. Relazione già marchiata dall'appartenenza allo stesso contesto (L’Istituto Regina Elena), che fornisce al gruppo un serbatoio di immagini, tradizioni, linguaggi, leggende metropolitane.
Al primo incontro è proposto un breve brano da leggere o un cancer movie, veicolo per fornire un modell0 ordinatore dell'esperienza e una o più metafore del viaggio attraverso la malattia.
Alla fine degli incontri ognuno viene invitato a rielaborare la propria esperienza scrivendo in totale liberta una breve relazione che poi sarà analizzata dai facilitatori. "Un momento di elaborazione del lutto, un modo di conservare memoria di un percorso», si legge nel progetto. Ma anche la via per proporre nuovi percorsi possibili di lavoro e strumenti alternativi di cooperazione e di scambio interpersonale. Che torneranno utili anche per ammorbidire le tensioni e i conflitti tra pazienti e struttura: perche le domande presenti nell'istituzione, tra le pareti dell’ospedale, possono svilupparsi, emergere ed essere elaborate.
Di Manuela Perrone
Suggestiva l'ipotesi di fondo: la rielaborazione dei vissuti legati al tumore, stimolata dalla condivisione collettiva dell'immaginario onirico, può rappresentare uno strumento per riqualificare la comunicazione e la relazione tra malati, familiari, equipe sanitaria e volontari. E quindi per umanizzarla
In gioco non c'e alcuna interpretazione dei sogni, nessun riferimento all'infanzia delle persone che li raccontano, nessun diretto fine terapeutico: ci sono libere associazioni, rimandi, echi, scoperte di assonanze. Gli incontri (settimanali, ciascuno della durata di un'ora e mezza) sono “matrici”, fonti di sogni offerti al gruppo. Con
un facilitatore (psichiatra o psicoterapeuta) che è ospite e insieme ospita e circa quindici partecipanti che sono seduti in cerchio, ma in genere di spalle, perche l'assenza di contano visivo ribadisce il concerto chiave del progetto: “la moneta di scambio è il sogno, non la relazione tra i sognatori”. Relazione già marchiata dall'appartenenza allo stesso contesto (L’Istituto Regina Elena), che fornisce al gruppo un serbatoio di immagini, tradizioni, linguaggi, leggende metropolitane.
Al primo incontro è proposto un breve brano da leggere o un cancer movie, veicolo per fornire un modell0 ordinatore dell'esperienza e una o più metafore del viaggio attraverso la malattia.
Alla fine degli incontri ognuno viene invitato a rielaborare la propria esperienza scrivendo in totale liberta una breve relazione che poi sarà analizzata dai facilitatori. "Un momento di elaborazione del lutto, un modo di conservare memoria di un percorso», si legge nel progetto. Ma anche la via per proporre nuovi percorsi possibili di lavoro e strumenti alternativi di cooperazione e di scambio interpersonale. Che torneranno utili anche per ammorbidire le tensioni e i conflitti tra pazienti e struttura: perche le domande presenti nell'istituzione, tra le pareti dell’ospedale, possono svilupparsi, emergere ed essere elaborate.
Di Manuela Perrone
Disconnettiti
Fonte:http://www.lascatoladelleidee.it del 25 settembre 2013

La dipendenza dalla rete, o internet – l’addiction disorder – non è ancora entrata a pieno titolo nei manuali di psichiatria tra le nuove patologie, ma sono in corso numerosi studi sull’argomento. In compenso gli psichiatri di tutto il mondo hanno già da tempo cominciato ad occuparsi di pazienti con disturbi da abuso o uso improprio di internet. Ma secondo studi molto recenti sembra che chi ha problemi seri di dipendenza abbia problemi psichiatrici preesistenti. Sembra infatti che la retedipendenza colpisca soprattutto persone con difficoltà a comunicare in modo normale con gli altri e le persone con personalità di tipo ossessivo-compulsivo. In questo senso la dipendenza da internet costituirebbe un rifugio sicuro per non affrontare le problematiche dell’esistenza e consentirebbe ai soggetti malati di vivere una condizione di onnipotenza legata al fatto di poter superare i normali vincoli spazio-temporali.
Chi è malato di internet?
Il malato di internet si connette per più di otto ore al giorno e mostra sintomi di astinenza sia fisici (sindrome del tunnel carpale, repentino cambiamento di peso) che comportamentali (ansia, nervosismo, sensazione di astinenza).
Per quanto riguarda i giovani in Italia secondo il Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza del 2011 realizzato da Eurispes eTelefono Azzurro, un ragazzo su 5 si sente irrequieto e nervoso quando non può accedere alla rete, e il 17,2% dei giovani ha cercato di ridurne l’uso senza riuscirci. Una ricerca realizzata dall’ospedale di Cremona nel 2012 (Internet Addiction Disorder: prevalence in an italian student population) ha rivelato che il 94,19% dei ragazzi fa un uso normale del mezzo, il 5,01% è moderatamente dipendente, lo 0,79% lo è seriamente. Buone notizie dunque.
Chi è malato di internet?
Il malato di internet si connette per più di otto ore al giorno e mostra sintomi di astinenza sia fisici (sindrome del tunnel carpale, repentino cambiamento di peso) che comportamentali (ansia, nervosismo, sensazione di astinenza).
Per quanto riguarda i giovani in Italia secondo il Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza del 2011 realizzato da Eurispes eTelefono Azzurro, un ragazzo su 5 si sente irrequieto e nervoso quando non può accedere alla rete, e il 17,2% dei giovani ha cercato di ridurne l’uso senza riuscirci. Una ricerca realizzata dall’ospedale di Cremona nel 2012 (Internet Addiction Disorder: prevalence in an italian student population) ha rivelato che il 94,19% dei ragazzi fa un uso normale del mezzo, il 5,01% è moderatamente dipendente, lo 0,79% lo è seriamente. Buone notizie dunque.

Però, presso il Policlinico Gemelli di Roma nel corso di 3 anni si sono presentate 550 persone di cui l’80% giovani tra gli 11 e i 23 anni. Federico Tonioni, responsabile dell’ambulatorio per le dipendenze dell’ospedale spiega che i ragazzi “vivono relazioni prive di corpo; nelle chat o nei giochi on line non puoi né colpire né baciare davvero”. Lo schermo è uno scudo protettivo. I genitori “immigrati digitali” non capiscono i “figli nativi” e pensano di dover curare una dipendenza mentre spesso si tratta di altro. Secondo lo psichiatra questi ragazzi hanno disturbi affettivi e relazionali. “Chi guarisce comincia a uscire con una ragazza, a praticare uno sport, non suggeriamo mai di spegnere il computer”.
Il parere di Tonino Cantelmi, uno dei maggiori studiosi italiani di questa problematica, autore del libro ‘Tecnoliquidità’ è che “siamo alle soglie di una mutazione antropologica; fenomeni che chiamiamo patologici vanno compresi all’interno di questo cambiamento”. La cosa da fare sembra di capire, è semplicemente ‘staccare la spina’ ogni tanto, insomma, disconnettersi.
Read more at http://www.lascatoladelleidee.it/disconnettiti/#ozWBZIkU7ybllWYa.99
Il parere di Tonino Cantelmi, uno dei maggiori studiosi italiani di questa problematica, autore del libro ‘Tecnoliquidità’ è che “siamo alle soglie di una mutazione antropologica; fenomeni che chiamiamo patologici vanno compresi all’interno di questo cambiamento”. La cosa da fare sembra di capire, è semplicemente ‘staccare la spina’ ogni tanto, insomma, disconnettersi.
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Il percorso di umanizzazione nelle cure oncologiche
Fonte: Online news del 20 settembre 2013

L’approccio globale alla persona è una priorità degli Istituti Regina Elena e San Gallicano che anche attraverso “L’ Area di Supporto alla Persona”, diretta da Tonino Cantelmi promuove modelli di assistenza integrata in ambito oncologico. L’obiettivo è la presa in carico globale del paziente e della sua famiglia, promuovere nuove progetti e nuovi modelli di umanizzazione che mettano sempre più al centro del processo assistenziale i bisogni del paziente
Lunedì 23 settembre alle ore 9.30 presso il Centro Congressi “Bastianelli” (Via Fermo Ognibene, 23 – Roma) si terrà un incontro dal titolo ““Psiconeuroncologia” durante il quale verranno illustrate alcune iniziative davvero originali:
- Presentazione del progetto “Ti racconto un sogno”, progetto pilota di Social Dreaming, una tecnica di lavoro di gruppo che valorizza il contributo che i sogni possono offrire non solo alla comprensione del “mondo interno” dei sognatori ma anche della realtà sociale in cui essi sono immersi.
- Presentazione della Survey condotta sui Centri italiani dedicati alla cura dell’Epilessia afferenti al gruppo di studio Nazionale su “Epilessia e Tumori Cerebrali” della Lega Italiana contro l’Epilessia, di cui la Dott.ssa Maschio del Regina Elena è Coordinatore Nazionale.
- Intervento di Fabrizio Didonna su Mindfulness in oncologia, pratica psicologica derivata dalla meditazione buddista, che consente ai soggetti di acquisire una consapevolezza piena della propria mente e del proprio corpo.
Lunedì 23 settembre alle ore 9.30 presso il Centro Congressi “Bastianelli” (Via Fermo Ognibene, 23 – Roma) si terrà un incontro dal titolo ““Psiconeuroncologia” durante il quale verranno illustrate alcune iniziative davvero originali:
- Presentazione del progetto “Ti racconto un sogno”, progetto pilota di Social Dreaming, una tecnica di lavoro di gruppo che valorizza il contributo che i sogni possono offrire non solo alla comprensione del “mondo interno” dei sognatori ma anche della realtà sociale in cui essi sono immersi.
- Presentazione della Survey condotta sui Centri italiani dedicati alla cura dell’Epilessia afferenti al gruppo di studio Nazionale su “Epilessia e Tumori Cerebrali” della Lega Italiana contro l’Epilessia, di cui la Dott.ssa Maschio del Regina Elena è Coordinatore Nazionale.
- Intervento di Fabrizio Didonna su Mindfulness in oncologia, pratica psicologica derivata dalla meditazione buddista, che consente ai soggetti di acquisire una consapevolezza piena della propria mente e del proprio corpo.

Notizia ripresa da: lifestyle.tiscali.it
Contro la depressione, “Ti racconto un sogno”
Il Social Dreaming nel percorso di umanizzazione delle cure
La depressione è un problema che colpisce i malati di tumore in maniera spesso grave e soprattutto va ad interferire in maniera negativa sull’efficacia delle cure. La percezione della realtà ed i vissuti personali sono inoltre molto alterati nei luoghi di cura. Lo staff dell’“L ’Area di Supporto alla Persona”, diretta da Tonino Cantelmi, ha appena presentato il progetto “Ti racconto un sogno…” (al via dal 30 settembre), che nasce dall’utilizzo del gruppo esperienziale e della tecnica del Social-Dreaming, per affrontare le difficoltà legate alla relazione Utenza-Struttura, attraverso le “libere associazioni sui sogni e sull’immaginario collettivo della malattia oncologica”. L’esperienza è aperta ai pazienti e a tutti coloro che sono chiamati a rispondere ai bisogni di cura: familiari, medici, operatori sanitari, psicologi, volontari, ecc..
Fabrizio Didonna, psicologo-psicoterapeuta presidente dell’Istituto Italiano Mindfulness, ha illustrato le potenzialità osservate in oncologia tramite l’utilizzo della Mindfulness, pratica psicologica derivata dalla meditazione buddista, che consente ai soggetti di acquisire una consapevolezza piena della propria mente e del proprio corpo. Infine, sono stati presentati i dati preliminari della Survey condotta sui Centri italiani dedicati alla cura dell’Epilessia afferenti al gruppo di studio Nazionale della Lega Italiana contro l’Epilessia (LICE) su “Epilessia e Tumori Cerebrali”, di cui Marta Maschio del Regina Elena è Coordinatore Nazionale.
“Recuperando l’approccio delle culture tribali e delle antiche civiltà – illustra Tonino Cantelmi - in cui i sogni venivano raccontati e discussi come “chiavi” per leggerne i significati simbolici, i sogni possono essere considerati come espressione di desideri e fantasie di un certo individuo, ma anche come “speciali rappresentazioni” di punti di vista ed idee della persona a proposito della comunità in cui vive e delle organizzazioni a cui appartiene. La nostra esperienza evidenzia che l’Ospedale può divenire un vero e proprio crocevia di interazioni caricate di valenze e di attese non sempre reali”.
“I benefici della meditazione – spiega l’esperto di Mindfulness, Fabrizio Didonna – sono stati osservati in protocolli validati da oltre 30 anni che dimostrano di migliorare in modo significativo il dolore cronico, i disturbi del sonno, ansia, depressione e problemi causati da stress. La tecnica, che origina dalla disciplina buddista, aiuta a stare nel “qui ed ora” e ad utilizzare le risorse personali, vivendo in modo diverso l’esperienza vita. E’ uno stato mentale capace di ridurre in modo significativo la depressione ed aumentare l’efficacia delle cure”.
25 settembre 2013
Contro la depressione, “Ti racconto un sogno”
Il Social Dreaming nel percorso di umanizzazione delle cure
La depressione è un problema che colpisce i malati di tumore in maniera spesso grave e soprattutto va ad interferire in maniera negativa sull’efficacia delle cure. La percezione della realtà ed i vissuti personali sono inoltre molto alterati nei luoghi di cura. Lo staff dell’“L ’Area di Supporto alla Persona”, diretta da Tonino Cantelmi, ha appena presentato il progetto “Ti racconto un sogno…” (al via dal 30 settembre), che nasce dall’utilizzo del gruppo esperienziale e della tecnica del Social-Dreaming, per affrontare le difficoltà legate alla relazione Utenza-Struttura, attraverso le “libere associazioni sui sogni e sull’immaginario collettivo della malattia oncologica”. L’esperienza è aperta ai pazienti e a tutti coloro che sono chiamati a rispondere ai bisogni di cura: familiari, medici, operatori sanitari, psicologi, volontari, ecc..
Fabrizio Didonna, psicologo-psicoterapeuta presidente dell’Istituto Italiano Mindfulness, ha illustrato le potenzialità osservate in oncologia tramite l’utilizzo della Mindfulness, pratica psicologica derivata dalla meditazione buddista, che consente ai soggetti di acquisire una consapevolezza piena della propria mente e del proprio corpo. Infine, sono stati presentati i dati preliminari della Survey condotta sui Centri italiani dedicati alla cura dell’Epilessia afferenti al gruppo di studio Nazionale della Lega Italiana contro l’Epilessia (LICE) su “Epilessia e Tumori Cerebrali”, di cui Marta Maschio del Regina Elena è Coordinatore Nazionale.
“Recuperando l’approccio delle culture tribali e delle antiche civiltà – illustra Tonino Cantelmi - in cui i sogni venivano raccontati e discussi come “chiavi” per leggerne i significati simbolici, i sogni possono essere considerati come espressione di desideri e fantasie di un certo individuo, ma anche come “speciali rappresentazioni” di punti di vista ed idee della persona a proposito della comunità in cui vive e delle organizzazioni a cui appartiene. La nostra esperienza evidenzia che l’Ospedale può divenire un vero e proprio crocevia di interazioni caricate di valenze e di attese non sempre reali”.
“I benefici della meditazione – spiega l’esperto di Mindfulness, Fabrizio Didonna – sono stati osservati in protocolli validati da oltre 30 anni che dimostrano di migliorare in modo significativo il dolore cronico, i disturbi del sonno, ansia, depressione e problemi causati da stress. La tecnica, che origina dalla disciplina buddista, aiuta a stare nel “qui ed ora” e ad utilizzare le risorse personali, vivendo in modo diverso l’esperienza vita. E’ uno stato mentale capace di ridurre in modo significativo la depressione ed aumentare l’efficacia delle cure”.
25 settembre 2013
Sexting, lo psicologo: si inizia alle elementari
Fonte: Corriere della Sera > Blog > Sei gradi del 7/9/2013

Non sono solo messaggi inviati da un cellulare. Ma qualcosa di più. Un bimbo che frequenta la quarta elementare spedisce alla sua compagna di classe una foto di se stesso nudo mentre si fa la doccia. Ha 9 anni, lo ha visto fare a un suo amico che a sua volta ha ricevuto una foto di una compagna di classe in costume da bagno. Sicuramente un’immagine più discreta, ma è solo il primo di numerosi messaggi con toni sempre più espliciti.
Si chiama sexting quando un testo, una foto o un video viene inviato attraverso un cellulare o il computer. Un fenomeno sempre più diffuso negli ultimi dieci anni da quando l’innovazione tecnologica ha reso più semplice l’invio di materiale in ogni momento e da qualsiasi luogo.
La degenerazione di questo uso assume forme crude e violente raccontate nelle storie che si leggono spesso. Il ragazzino che decide di suicidarsi perché minacciato attraverso un video (è successo in Gran Bretagna), un altro, in Italia, anche lui suicida perché su Facebook gli amici scrivevano della sua presunta omosessualità. E l’ultimo, a Caltanissetta, dove un uomo è stato arrestato per avere pubblicato le foto hard della fidanzata: è accusato di produzione e divulgazione di materiale pedopornografico, diffamazione e minaccia.
I dati che hanno raccolto gli psicologi Andrea Marino e Roberta Bucci dell’Istituto di Terapia Cognitivo-Interpersonale di Roma parlano chiaro e sono allarmanti perché riguardano i ragazzi molto giovani. L’età media si abbassa fino ad arrivare a bambini di 8, 9 anni, quando il Sexting è considerato reato.
In un’indagine di Associated Press e MTV (2009) su 1.247 intervistati di età compresa tra i 14 e i 24 risultava che il 13% delle donne e il 9% dei maschi avevano inviato una foto o un video di se stessi nudi o semi-nudi. E ancora: la foto dei giovani e giovanissimi italiani è stata scattata da un’indagine conoscitiva di Telefono Azzurro ed Eurispes, secondo la quale nel 2012 un ragazzo su 5 ha trovato proprie foto imbarazzanti in Rete, mentre un anno prima la percentuale era solo di uno su 10. Quanto ad ammettere di voler fare “sexting”, solo il 12,3% dice di aver inviato materiale a sfondo sessuale e comunque nel 41,9% dei casi i giovani dicono di non vederci nulla di male nell’averlo fatto.
“In generale i ragazzi non si preoccupano: è quasi normale inviare e ricevere foto o video pornografici, anche perché molto spesso sono così giovani da non cogliere la pericolosità della loro azione”. Emiliano Lambiase è psicologo all’Istituto di Terapia Cognitivo-Interpersonale, diretto dal prof. Tonino Cantelmi, e si occupa del rapporto tra i problemi sessuali e la tecnologia.
“I bambini arrivano da noi quando i genitori si accorgono che qualcosa non va. I ragazzi più grandi quando si rendono conto di avere problemi sessuali a causa di una dipendenza da videochat e sesso “virtuale”. Il percorso per uscirne è lungo”.
Che effetti ha il Sexting?
La tecnologia ci obbliga a ragionare in maniera diversa: dobbiamo usare due tipi di linguaggio, quello reale e quello virtuale. Nella testa delle persone più fragili si crea una specie di cortocircuito che fa perdere l’equilibrio, c’è un sovraccarico. Così siamo più distratti, abbiamo meno memoria e meno capacità di avere un rapporto emotivo con gli altri. La perdita di un punto fisso definisce la realtà virtuale come unica: è una dipendenza.
E il rapporto con il sesso? Cambia?
La dipendenza da cybersesso brucia le tappe. Se prima un dipendente sessuale ci metteva più tempo ad essere totalmente assuefatto, ora i tempi sono immediati. Ho seguito pazienti che senza la tecnologia non avrebbero mai sviluppato una dipendenza. Un esempio? Un uomo di 60 anni, sposato, una vita tranquilla, sessualmente inibito. Ma con la moglie negli anni supera l’ansia da prestazione. Poi scopre internet e in quella nuova sede realizza quello che aveva sempre represso annullando il rapporto con la propria donna. La moglie lo scopre e lui chiede di essere curato.
E per i ragazzini?
Molti di loro non conoscono il sesso, internet permette di superare l’ansia da rifiuto. Ma quando è il momento dell’approccio reale con una ragazza, lì nascono i problemi. Non c’è una sana crescita sessuale. Il cybersesso e il sexting hanno conseguenze pericolose: i ragazzi non riescono più a lavorare, studiare e sono colti da depressione.
Che conseguenze ci possono essere oltre a quelle psicologiche?
Tra 16 e 18 anni almeno un ragazzo su 10 si è trovato in pericolo dopo avare messo online foto si se stesso nudo. Spesso le immagini vengono spedite a gente di cui ci si fida. Ma non si è al corrente della fine che poi faranno e soprattutto i messaggi vengono inviati senza il consenso dell’altro. Poi girano in rete e l’utilizzo da parte di altri può essere pericoloso. Si può entrare nella sfera della pedofilia, ma anche del cyberbullismo che fa leva su meccanismi psicologici davvero delicati. Il suicidio è l’ultima tappa, ma bisogna tenere conto che le persone che finiscono in questi vortici sono sempre le più deboli e fragili.
Fonte: seigradi.corriere.it
Si chiama sexting quando un testo, una foto o un video viene inviato attraverso un cellulare o il computer. Un fenomeno sempre più diffuso negli ultimi dieci anni da quando l’innovazione tecnologica ha reso più semplice l’invio di materiale in ogni momento e da qualsiasi luogo.
La degenerazione di questo uso assume forme crude e violente raccontate nelle storie che si leggono spesso. Il ragazzino che decide di suicidarsi perché minacciato attraverso un video (è successo in Gran Bretagna), un altro, in Italia, anche lui suicida perché su Facebook gli amici scrivevano della sua presunta omosessualità. E l’ultimo, a Caltanissetta, dove un uomo è stato arrestato per avere pubblicato le foto hard della fidanzata: è accusato di produzione e divulgazione di materiale pedopornografico, diffamazione e minaccia.
I dati che hanno raccolto gli psicologi Andrea Marino e Roberta Bucci dell’Istituto di Terapia Cognitivo-Interpersonale di Roma parlano chiaro e sono allarmanti perché riguardano i ragazzi molto giovani. L’età media si abbassa fino ad arrivare a bambini di 8, 9 anni, quando il Sexting è considerato reato.
In un’indagine di Associated Press e MTV (2009) su 1.247 intervistati di età compresa tra i 14 e i 24 risultava che il 13% delle donne e il 9% dei maschi avevano inviato una foto o un video di se stessi nudi o semi-nudi. E ancora: la foto dei giovani e giovanissimi italiani è stata scattata da un’indagine conoscitiva di Telefono Azzurro ed Eurispes, secondo la quale nel 2012 un ragazzo su 5 ha trovato proprie foto imbarazzanti in Rete, mentre un anno prima la percentuale era solo di uno su 10. Quanto ad ammettere di voler fare “sexting”, solo il 12,3% dice di aver inviato materiale a sfondo sessuale e comunque nel 41,9% dei casi i giovani dicono di non vederci nulla di male nell’averlo fatto.
“In generale i ragazzi non si preoccupano: è quasi normale inviare e ricevere foto o video pornografici, anche perché molto spesso sono così giovani da non cogliere la pericolosità della loro azione”. Emiliano Lambiase è psicologo all’Istituto di Terapia Cognitivo-Interpersonale, diretto dal prof. Tonino Cantelmi, e si occupa del rapporto tra i problemi sessuali e la tecnologia.
“I bambini arrivano da noi quando i genitori si accorgono che qualcosa non va. I ragazzi più grandi quando si rendono conto di avere problemi sessuali a causa di una dipendenza da videochat e sesso “virtuale”. Il percorso per uscirne è lungo”.
Che effetti ha il Sexting?
La tecnologia ci obbliga a ragionare in maniera diversa: dobbiamo usare due tipi di linguaggio, quello reale e quello virtuale. Nella testa delle persone più fragili si crea una specie di cortocircuito che fa perdere l’equilibrio, c’è un sovraccarico. Così siamo più distratti, abbiamo meno memoria e meno capacità di avere un rapporto emotivo con gli altri. La perdita di un punto fisso definisce la realtà virtuale come unica: è una dipendenza.
E il rapporto con il sesso? Cambia?
La dipendenza da cybersesso brucia le tappe. Se prima un dipendente sessuale ci metteva più tempo ad essere totalmente assuefatto, ora i tempi sono immediati. Ho seguito pazienti che senza la tecnologia non avrebbero mai sviluppato una dipendenza. Un esempio? Un uomo di 60 anni, sposato, una vita tranquilla, sessualmente inibito. Ma con la moglie negli anni supera l’ansia da prestazione. Poi scopre internet e in quella nuova sede realizza quello che aveva sempre represso annullando il rapporto con la propria donna. La moglie lo scopre e lui chiede di essere curato.
E per i ragazzini?
Molti di loro non conoscono il sesso, internet permette di superare l’ansia da rifiuto. Ma quando è il momento dell’approccio reale con una ragazza, lì nascono i problemi. Non c’è una sana crescita sessuale. Il cybersesso e il sexting hanno conseguenze pericolose: i ragazzi non riescono più a lavorare, studiare e sono colti da depressione.
Che conseguenze ci possono essere oltre a quelle psicologiche?
Tra 16 e 18 anni almeno un ragazzo su 10 si è trovato in pericolo dopo avare messo online foto si se stesso nudo. Spesso le immagini vengono spedite a gente di cui ci si fida. Ma non si è al corrente della fine che poi faranno e soprattutto i messaggi vengono inviati senza il consenso dell’altro. Poi girano in rete e l’utilizzo da parte di altri può essere pericoloso. Si può entrare nella sfera della pedofilia, ma anche del cyberbullismo che fa leva su meccanismi psicologici davvero delicati. Il suicidio è l’ultima tappa, ma bisogna tenere conto che le persone che finiscono in questi vortici sono sempre le più deboli e fragili.
Fonte: seigradi.corriere.it
Il Futuro? Ce lo insegnano i bambini
Fonte: L'espresso del 6 giugno 2013

di di Roselina Salemi
Francesco e Valeria ricordano ancora con divertito stupore il giorno in cui Andrea, il loro primo figlio, che adesso ha tre anni, ha preso in mano un foglio di carta. Aveva meno di otto mesi, e con il minuscolo dito cercava di far scorrere il foglio da sinistra verso destra come in un touchscreen. Delusissimo perché non succedeva niente, ha tentato di allargare la figura muovendo il pollice e l'indice, cioè trattando il foglio come uno schermo. Altra delusione. Forse si stava chiedendo a che cosa serve un foglio di carta. Il fratellino Tiziano, sedici mesi, cammina appena, ma quanto a tecnologia non ha esitazioni, si dirige verso un tavolino basso, prende l'ipad, lo sblocca e trova la sua applicazione preferita. Andrea e Tiziano sono più che nativi digitali, termine coniato nel 2001 da Marc Prensky per indicare i bambini nati e cresciuti con Internet. L'arrivo dell'iPad nel 2010 segna un'altra fase del cambiamento: la generazione touchscreen. I tablet sono grandi e luminosi, è facile usarli per colorare e disegnare: bastano le dita. I bambini li adorano, e i genitori più critici si chiedono se questa osmosi con la tecnologia renderà migliori i loro figli o brucerà senza scampo le loro tenere sinapsi.
Andrea e Tiziano sono figli di Francesco Sacco, 46 anni, esperto di innovazione, docente dell'Università Bocconi di Milano e dell'Università dell'Insubria di Varese, co-fondatore di Impara Digitale, cooptato da Lista Civica per i temi connessi alla tecnologia, nonché proprietario di innumerevoli gadget utili al gioco e al lavoro (penne che registrano mentre scrivi, programmi di traduzione dalla dettatura al computer).
Osservando i suoi bambini, arriva alle stesse conclusioni di scienziati come Sandra Calvert (Università di Georgetown) e Georgene Troseth, psicologa dello sviluppo (Vanderbilt University di Nashville, nel Tennessee): «I nativi digitali stanno sviluppando capacità e metodi di apprendimento completamente diversi. La mia generazione aveva grossi libretti di istruzioni, quella dopo molto più snelli, quella di adesso, zero. La conoscenza avviene in modo pratico e intuitivo. La tv è statica, e non permette una delle cose più importanti per i piccoli: lo scambio di informazioni. Tiziano è in grado di trovare sul mio cellulare le icone dei suoi giochi preferiti e cerca nella cronologia i filmatini dell'Uomo Ragno che gli piacciono. Colora sull'iPad e compone i puzzle. Nessuno gli ha spiegato niente. Certo, continua a provare e riprovare, tanto che ho dovuto mettere un filtro per bloccare eventuali danni da sperimentazione sul mio iPad, ma penso che questi bambini faranno la differenza, nel futuro saranno "makers", produrranno da soli gli oggetti che desiderano». Il caso Sacco è particolare. In casa sua regna la domotica. Non ci sono più telecomandi: televisione 3D e luci, tutto è centralizzato e regolato attraverso l'iPad. Andrea alza e abbassa le tapparelle, mentre la tata filippina non ci riesce, e Tiziano prova già ad accendere la tv.
Una rivoluzione. Paolo Ferri, che insegna Tecnologie didattiche e Teoria e tecniche dei Nuovi Media all'Università di Milano-Bicocca, ha introdotto il termine "nativi digitali" in Italia, ed è radicale. Noi siamo gli ultimi gutenberghiani, sostiene, in fondo non c'è stato niente di totalmente nuovo dopo l'invenzione della stampa. Ci sono voluti cinquecento anni. Il suo saggio, "Nativi digitali" (Bruno Mondadori), è del 2011 e sta per uscirne un aggiornamento in e-book. C'è chi agita lo spauracchio della tecno-dipendenza, ma il cambiamento va avanti. «Siamo davanti a un'intelligenza nata dal mutamento del contesto sociale, passato da un sistema alfabetico-gutenberghiano a uno digitale televisivo», spiega Ferri.
Secondo le prime, già contestate classificazioni, nella macro categoria dei "nativi", o "generazione Z", ci sono tre grandi aree: "nativi digitali puri" (tra 0 e 12 anni ) "millennials" (tra 14 e 18 anni) e "nativi digitali spuri" (18-25 anni). Tutti gli altri, compreso il supertecnologico professor Sacco, sono "immigranti digitali", bravissimi, ma con un handicap: sono passati dalla penna alla tastiera, arrivando ai tablet con un approccio utilitaristico: la tecnologia mi serve. I Digital Kids invece si divertono, hanno un'esperienza precoce degli schermi interattivi - videogiochi, cellulari, computer - e di Internet.
Nelle loro camerette, i media digitali sono sempre più presenti. L'89 per cento delle famiglie usa il computer (contro il 40 del 2005), ma i numeri rendono l'idea fino a un certo punto. Ferri, che ha condotto una ricerca su cinquanta bambini di tre classi fra i 7 e i 9 anni - c'erano da testare le app di Geronimo Stilton, il famoso e amatissimo topo investigatore - si è portato dietro il figlio Davide (10 anni) come beta tester e peer tutor. «È stato istruttivo», racconta, «vedere come funzionava bene il rapporto tra pari. Lui spiegava il gioco, ed era più utile di qualsiasi adulto. Confesso che mi fa da consulente». Che cosa è venuto fuori dalla ricerca? «I bambini considerano il mondo digitale come espansione di quello reale, non c'è quasi differenza né contrasto, trovano normale interagire, inventare varianti del gioco (noi parliamo di artigianato cognitivo). Il touch si può usare in diverse posizioni, anche stando sdraiati per terra, ed è più semplice del notebook. Le piccole dita corrono veloci sulla tastiera virtuale. Mio figlio ha scelto un gioco di Spiderman su App store a 6,60 euro, e mi ha fatto capire che la console portatile rischia di essere superata: costa ed è meno comoda».
Insomma, i nativi condizionano il mercato. Sono multitasking, in grado di distribuire l'attenzione su quattro-cinque dispositivi contemporaneamente: studiano, ascoltano la musica, rispondono agli sms e guardano Facebook sul pc, senza difficoltà. Tonino Cantelmi, psichiatra, docente di Psicologia dello sviluppo alla Lumsa, la definisce "tecnoliquidità": si creano grandi gruppi di amici impegnati su testi diversi, che possono scambiarsi battute, mostrare foto o mail, condividere messaggi. E divertirsi. Lo studio deve essere interattivo. I genitori non li capiscono, proprio perché la loro mente è diversa. E qui arriviamo alle due questioni cruciali. Prima: la tecnologia deve essere illimitata o razionata saggiamente? Fa bene? Fa male? Michael Rich, direttore del Centro sulla salute infantile dell'Ospedale pediatrico di Boston, ci mette in guardia: «Molte app per bambini sono progettate in modo da stimolare il rilascio di dopamina, neurotrasmettitore associato al piacere, per spingerli a non interrompere il gioco». Hanna Rosin su "The Atlantic" dedica un lungo reportage all'apprensione dei genitori che tentano di controllare l'uso dei tablet. C'è chi concede mezz'ora al giorno, chi un'ora durante il fine settimana, chi il mercoledì e il sabato, chi soltanto in aereo e durante i lunghi viaggi in auto. Marc Prensky è dell'idea di lasciar liberi i bambini: «Le proibizioni riflettono i nostri pregiudizi».
Seconda questione: che cosa succederà a scuola? «Per far transitare il sistema italiano verso il digitale servirebbero 6-9 miliardi di euro. Sembrano tanti, ma una portaerei ne costa uno e mezzo. Quanto a risorse disponibili, ce la battiamo con la Grecia, la Romania e il Portogallo. Solo il 7 per cento delle classi ha Internet. Per attrezzarne una ci vogliono quindicimila euro, per una scuola intera duecentomila», calcola Ferri. Eppure non si può restare indietro. Dice Sacco: «Che cosa fai? Prendi questi bambini e li metti davanti a una penna e a un foglio di carta? Sarebbe come se a noi avessero dato un calamaio». C'è chi si batte per rincorrere il nuovo, formare gli insegnanti, c'è chi vede scomparire un mondo. E la scrittura? L'ortografia? Ferri è quasi eretico: «Potremmo considerare la scrittura manuale come il disegno.». Una cosa è certa: la differenza tra i nativi e gli "altri" sarà sempre più netta. Alla domanda ricorrente su come riconoscere gli immigranti digitali, Cantelmi risponde: «Sono quelli che fanno la coda al check-in».
Francesco e Valeria ricordano ancora con divertito stupore il giorno in cui Andrea, il loro primo figlio, che adesso ha tre anni, ha preso in mano un foglio di carta. Aveva meno di otto mesi, e con il minuscolo dito cercava di far scorrere il foglio da sinistra verso destra come in un touchscreen. Delusissimo perché non succedeva niente, ha tentato di allargare la figura muovendo il pollice e l'indice, cioè trattando il foglio come uno schermo. Altra delusione. Forse si stava chiedendo a che cosa serve un foglio di carta. Il fratellino Tiziano, sedici mesi, cammina appena, ma quanto a tecnologia non ha esitazioni, si dirige verso un tavolino basso, prende l'ipad, lo sblocca e trova la sua applicazione preferita. Andrea e Tiziano sono più che nativi digitali, termine coniato nel 2001 da Marc Prensky per indicare i bambini nati e cresciuti con Internet. L'arrivo dell'iPad nel 2010 segna un'altra fase del cambiamento: la generazione touchscreen. I tablet sono grandi e luminosi, è facile usarli per colorare e disegnare: bastano le dita. I bambini li adorano, e i genitori più critici si chiedono se questa osmosi con la tecnologia renderà migliori i loro figli o brucerà senza scampo le loro tenere sinapsi.
Andrea e Tiziano sono figli di Francesco Sacco, 46 anni, esperto di innovazione, docente dell'Università Bocconi di Milano e dell'Università dell'Insubria di Varese, co-fondatore di Impara Digitale, cooptato da Lista Civica per i temi connessi alla tecnologia, nonché proprietario di innumerevoli gadget utili al gioco e al lavoro (penne che registrano mentre scrivi, programmi di traduzione dalla dettatura al computer).
Osservando i suoi bambini, arriva alle stesse conclusioni di scienziati come Sandra Calvert (Università di Georgetown) e Georgene Troseth, psicologa dello sviluppo (Vanderbilt University di Nashville, nel Tennessee): «I nativi digitali stanno sviluppando capacità e metodi di apprendimento completamente diversi. La mia generazione aveva grossi libretti di istruzioni, quella dopo molto più snelli, quella di adesso, zero. La conoscenza avviene in modo pratico e intuitivo. La tv è statica, e non permette una delle cose più importanti per i piccoli: lo scambio di informazioni. Tiziano è in grado di trovare sul mio cellulare le icone dei suoi giochi preferiti e cerca nella cronologia i filmatini dell'Uomo Ragno che gli piacciono. Colora sull'iPad e compone i puzzle. Nessuno gli ha spiegato niente. Certo, continua a provare e riprovare, tanto che ho dovuto mettere un filtro per bloccare eventuali danni da sperimentazione sul mio iPad, ma penso che questi bambini faranno la differenza, nel futuro saranno "makers", produrranno da soli gli oggetti che desiderano». Il caso Sacco è particolare. In casa sua regna la domotica. Non ci sono più telecomandi: televisione 3D e luci, tutto è centralizzato e regolato attraverso l'iPad. Andrea alza e abbassa le tapparelle, mentre la tata filippina non ci riesce, e Tiziano prova già ad accendere la tv.
Una rivoluzione. Paolo Ferri, che insegna Tecnologie didattiche e Teoria e tecniche dei Nuovi Media all'Università di Milano-Bicocca, ha introdotto il termine "nativi digitali" in Italia, ed è radicale. Noi siamo gli ultimi gutenberghiani, sostiene, in fondo non c'è stato niente di totalmente nuovo dopo l'invenzione della stampa. Ci sono voluti cinquecento anni. Il suo saggio, "Nativi digitali" (Bruno Mondadori), è del 2011 e sta per uscirne un aggiornamento in e-book. C'è chi agita lo spauracchio della tecno-dipendenza, ma il cambiamento va avanti. «Siamo davanti a un'intelligenza nata dal mutamento del contesto sociale, passato da un sistema alfabetico-gutenberghiano a uno digitale televisivo», spiega Ferri.
Secondo le prime, già contestate classificazioni, nella macro categoria dei "nativi", o "generazione Z", ci sono tre grandi aree: "nativi digitali puri" (tra 0 e 12 anni ) "millennials" (tra 14 e 18 anni) e "nativi digitali spuri" (18-25 anni). Tutti gli altri, compreso il supertecnologico professor Sacco, sono "immigranti digitali", bravissimi, ma con un handicap: sono passati dalla penna alla tastiera, arrivando ai tablet con un approccio utilitaristico: la tecnologia mi serve. I Digital Kids invece si divertono, hanno un'esperienza precoce degli schermi interattivi - videogiochi, cellulari, computer - e di Internet.
Nelle loro camerette, i media digitali sono sempre più presenti. L'89 per cento delle famiglie usa il computer (contro il 40 del 2005), ma i numeri rendono l'idea fino a un certo punto. Ferri, che ha condotto una ricerca su cinquanta bambini di tre classi fra i 7 e i 9 anni - c'erano da testare le app di Geronimo Stilton, il famoso e amatissimo topo investigatore - si è portato dietro il figlio Davide (10 anni) come beta tester e peer tutor. «È stato istruttivo», racconta, «vedere come funzionava bene il rapporto tra pari. Lui spiegava il gioco, ed era più utile di qualsiasi adulto. Confesso che mi fa da consulente». Che cosa è venuto fuori dalla ricerca? «I bambini considerano il mondo digitale come espansione di quello reale, non c'è quasi differenza né contrasto, trovano normale interagire, inventare varianti del gioco (noi parliamo di artigianato cognitivo). Il touch si può usare in diverse posizioni, anche stando sdraiati per terra, ed è più semplice del notebook. Le piccole dita corrono veloci sulla tastiera virtuale. Mio figlio ha scelto un gioco di Spiderman su App store a 6,60 euro, e mi ha fatto capire che la console portatile rischia di essere superata: costa ed è meno comoda».
Insomma, i nativi condizionano il mercato. Sono multitasking, in grado di distribuire l'attenzione su quattro-cinque dispositivi contemporaneamente: studiano, ascoltano la musica, rispondono agli sms e guardano Facebook sul pc, senza difficoltà. Tonino Cantelmi, psichiatra, docente di Psicologia dello sviluppo alla Lumsa, la definisce "tecnoliquidità": si creano grandi gruppi di amici impegnati su testi diversi, che possono scambiarsi battute, mostrare foto o mail, condividere messaggi. E divertirsi. Lo studio deve essere interattivo. I genitori non li capiscono, proprio perché la loro mente è diversa. E qui arriviamo alle due questioni cruciali. Prima: la tecnologia deve essere illimitata o razionata saggiamente? Fa bene? Fa male? Michael Rich, direttore del Centro sulla salute infantile dell'Ospedale pediatrico di Boston, ci mette in guardia: «Molte app per bambini sono progettate in modo da stimolare il rilascio di dopamina, neurotrasmettitore associato al piacere, per spingerli a non interrompere il gioco». Hanna Rosin su "The Atlantic" dedica un lungo reportage all'apprensione dei genitori che tentano di controllare l'uso dei tablet. C'è chi concede mezz'ora al giorno, chi un'ora durante il fine settimana, chi il mercoledì e il sabato, chi soltanto in aereo e durante i lunghi viaggi in auto. Marc Prensky è dell'idea di lasciar liberi i bambini: «Le proibizioni riflettono i nostri pregiudizi».
Seconda questione: che cosa succederà a scuola? «Per far transitare il sistema italiano verso il digitale servirebbero 6-9 miliardi di euro. Sembrano tanti, ma una portaerei ne costa uno e mezzo. Quanto a risorse disponibili, ce la battiamo con la Grecia, la Romania e il Portogallo. Solo il 7 per cento delle classi ha Internet. Per attrezzarne una ci vogliono quindicimila euro, per una scuola intera duecentomila», calcola Ferri. Eppure non si può restare indietro. Dice Sacco: «Che cosa fai? Prendi questi bambini e li metti davanti a una penna e a un foglio di carta? Sarebbe come se a noi avessero dato un calamaio». C'è chi si batte per rincorrere il nuovo, formare gli insegnanti, c'è chi vede scomparire un mondo. E la scrittura? L'ortografia? Ferri è quasi eretico: «Potremmo considerare la scrittura manuale come il disegno.». Una cosa è certa: la differenza tra i nativi e gli "altri" sarà sempre più netta. Alla domanda ricorrente su come riconoscere gli immigranti digitali, Cantelmi risponde: «Sono quelli che fanno la coda al check-in».